Agricoltura, lavoratori schiacciati fra produttori e grande distribuzione

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L’agricoltura non è soltanto un singolo settore produttivo, ma un’intera filiera, a monte la chimica e la meccanica e a valle, la grande distribuzione, l’industria alimentare delle bevande e del tabacco, il commercio al dettaglio. La filiera estesa occupa più di 3 milioni di lavoratori. Questo settore è fonte di occupazione e sicurezza ambientale e alimentare. La questione non ha solo risvolti economici, ma tensioni di tipo politico ed etico. Nonostante il ruolo fondamentale dell’agricoltura per la produzione di merci e valore, analisi e sperimentazione sono quasi nulle, così come l’organizzazione e la sindacalizzazione dei lavoratori. Se tale condizione è dovuta anche al carattere stagionale degli impieghi, ridurlo a questo significa non voler affrontare la questione.Dall’altra parte infatti, i datori di lavoro sono ben associati e tutelati, le loro strutture assumono un ruolo improprio di sindacati, invece di quello che sono realmente, basando la loro azione sull’impedire ai lavoratori di autodeterminarsi.

In agricoltura, esistono due tipologie di datori di lavoro, a carattere prettamente familiare o a carattere aziendale. Il primo tipo, vede impegnata una mano d’opera esigua unita da legami familiari o di vicinato, il ricorso a lavoratori esterni a queste tipologie di legami, sia italiani sia stranieri, è di tipo saltuario in base alla stagionalità delle raccolte e completamente irregolare. Il secondo tipo invece sono vere e proprie aziende che distribuiscono i loro prodotti su tutto il territorio nazionale con alcune esportazioni estere. Questa tipologia di aziende impiega mano d’opera stabile per tutto l’anno, in maggior parte di origine extra europea. Quasi il 70% dei lavoratori hanno un contratto, anche se questo non corrisponde alle ore effettive svolte, gli altri sono completamente in nero. In entrambe le tipologie produttive, le misure su salute e sicurezza, previste per legge, non vengono rispettate; il 64% dei lavoratori è sprovvisto di Dispositivi di Protezione Individuale, mentre la totalità dei lavoratori non ha letto il Documento di Valutazione Rischi e non sa neanche di cosa si tratti.

Siamo in un contesto in cui, secondo i dati ufficiali, gli infortuni nel settore pesano del 6% su quelli totali, ma almeno un 50% rimane nell’ombra, non soltanto perché i lavoratori non riescono a denunciare, ma perché, le modalità di riconoscimento sono talmente restrittive da escluderne la maggior parte. Facciamo un esempio, per raggiungere i campi in molti usano motorini o piccole vespe, la loro origine straniera gli rende difficoltoso, se non proibitivo, avere la patente. Ogni volta che succede un incidente, non viene riconosciuto l’infortunio in itinere perché il lavoratore è sprovvisto di patente.  Lavoratori che hanno operato decenni nelle nostre campagne e nelle nostri magazzini non solo non hanno diritto all’indennizzo, ma non hanno neanche un posto nelle statistiche.

I piccoli proprietari non hanno, spesso, modo di accedere a forme di prevenzione e protezione sul lavoro o perché fuori dalla loro portata economica o perché le logiche del mercato e della Gdo impongono una velocità di produzione e raccolta non compatibile con i Dpi oggi sul mercato.Nelle grandi aziende, invece, c’è la consapevole omissione del rispetto della salute e sicurezza sia perché i controlli effettuati sono scarsissimi a causa del taglio di risorse e ispettori (in media un’azienda rischia un controllo ogni 20 anni) sia perché i lavoratori stranieri hanno messo possibilità di sporgere denuncia. Sono, infatti, costantemente sotto ricatto da parte dei datori di lavoro, qualsiasi legittima pretesa del rispetto dei propri diritti equivale ad un rischio di perdita del posto. Senza contratto rischiano di perdere il permesso di soggiorno e quindi la regolarità su suolo italiano.

In agricoltura l’unico liet-motiv è lavorare bene, il prodotto non deve essere rovinato e in fretta, i tempi imposti dalla Grande distribuzione devono essere rispettati a qualsiasi costo.Ben al di là delle 10 ore medie settimanali scritte nei contratti, i lavoratori operano per più di 8 ore al giorno, il 20% fino a 12 ore, quando i Ccnl ne prevedono sei e mezza. Se nei supermercati sono esposti prodotti a ribasso e con prezzi stracciati, quel sottocosto lo pagano i lavoratori in termine di sicurezza e salario, il 40% dei lavoratori riceve una paga non sindacale dalle 35 alle 50 euro per un’intera giornata di lavoro. La Grande distribuzione impone prezzi talmente bassi da essere inferiori al costo di produzione, pensiamo alle aste a doppio ribasso, utilizzate da alcune catene di supermercati per assicurarsi la fornitura di prodotti al miglior prezzo possibile, scaricando tutti i costi di produzione sui primi anelli della filiera. Mesi prima della stagione di raccolta, alcuni player della grande distribuzione  fissano il prezzo di acquisto del prodotto trasformato. L’acquirente raccoglie una prima proposta dalle controparti industriali, in competizione per aggiudicarsi la commessa, poi convoca una seconda asta al ribasso a partire dal prezzo inferiore spuntato nella prima fase. In pochi minuti, i partecipanti alla gara devono tentare di accaparrarsi forniture da centinaia di migliaia di euro. Questo meccanismo, simile al gioco d'azzardo, colpisce negativamente l'intera filiera produttiva, costringendo in molte occasioni gli industriali a vendere sottocosto pur di non perdere la commessa e quindi a trasferire parte dei costi di produzione sulla parte agricola che, a sua volta, è costretta a tagliare il costo del lavoro. I lavoratori agricoli, così come coloro che operano nella catena del valore (agricoltura, logistica, commercio) hanno il potere di fermare l’economia se si fermano, partiamo da qui per analizzare il settore e cambiarlo.

   

Elisa Bianchini   Esecutivo nazionale COBAS Lavoro Privato

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