CARCERI-UNA TRAGEDIA SENZA CATARSI

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Nelle carceri italiane si va lentamente e drammaticamente consumando l’ennesima estate contrassegnata dalla cronaca di un supplizio che continua a essere “giocato” sui corpi dei detenuti e delle detenute, facendo riemergere dall’ombra delle celle la realtà dell' esecuzione della pena, dalla quale ci si vorrebbe tenere distanti, ma che si ripropone nella sua gravità, nonostante si tenti di derubricare il problema a questione contingente, demandando sempre a qualcosa d’altro la sua soluzione (a una nuova legge, all’edilizia carceraria, al reperimento di spazi ulteriori e più idonei alla detenzione, all’aumento del personale e delle risorse che, però, non arrivano mai e sono sempre insufficienti).

Il sovraffollamento, i suicidi (47 dall’inizio dell’anno), la questione psichiatrica interna ai penitenziari, ripropongono ancora una volta la realtà della sofferenza fisica e del dolore quali elementi costitutivi della pena, che vanno urgentemente affrontati, non demandati ad un improbabile cambio di passo di un incerto domani politico.
Sovraffollamento e caldo in carcere significano, infatti, cose ben precise: vivere in promiscuità, in celle senza aria e a volte senza acqua, tra sporcizia e violenza, in condizioni degradanti di vita, in spazi angusti, luridi e roventi, in situazioni a rischio di rivolta, circostanze che non riguardano solo alcuni penitenziari, ma la generalità degli istituti di pena, sotto accusa per la vetustà, le cattive condizioni di detenzione e la mancanza di spazi. Ma per risolvere il problema non serve fare ricorso ad altri luoghi di detenzione, pensare ad inserire altre persone in altre carceri, basterebbe, semplicemente, attuare le Misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario, in direzione della finalità risocializzante della pena, attivando i servizi sociali e aumentando le attività trattamentali per chi è in carcere (sottraendo l’attuazione di queste ultime alle singole discrezionalità).

I dati del Ministero della Giustizia ci dicono che al 31 luglio, nei 189 istituti di pena italiani, i detenuti risultavano essere diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare, ovvero 57.749, di cui 2.510 donne e 18.044 stranieri. A partire da questi dati il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha recentemente affermato che nelle patrie galere sono circa 9.000 i detenuti per i quali si dovrebbero attivare le previste Misure alternative (1.582 persone per condanne sotto l’anno, 2.855 detenuti/e che scontano pene tra uno e due anni e 4.511 che hanno pene tra due e tre anni), dando seguito a quanto stabilito dall’Ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n. 354) nel quale si individuano tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale; la semilibertà; la detenzione domiciliare. Peraltro con la legge 94 del 9 agosto 2013 sono stati già rimossi alcuni ostacoli nell’accesso alla detenzione domiciliare e alla semi-libertà per i recidivi e, con la messa alla prova, c’è la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento penale per reati punibili con un massimo di 4 anni di reclusione, facendo svolgere al detenuto un programma di trattamento sotto la supervisione dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna che prevede l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, il risarcimento del danno e la riparazione, oltre che una serie di obblighi relativamente al luogo in cui si è accolti, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare alcuni luoghi.

La domanda che sorge spontanea a questo punto è perché non si riesca mai a chiarire chi ha la responsabilità dell’attuazione delle norme (previste ma continuamente disattese), quali sono i motivi che impediscono la loro applicazione, perché si deve assistere, impotenti, alla tragedia dei suicidi che si susseguono ogni anno senza che nessuno risponda di quanto accaduto, senza che queste morti insegnino qualcosa a qualcuno. E’ doveroso a questo proposito ricordare, per tutti coloro che si sono tolti la vita dall’inizio di quest’anno, almeno i nomi degli ultimi tre detenuti che hanno deciso di porre termine alla propria insopportabile situazione detentiva, due donne, Susan e Azzurra a Torino - che hanno tragicamente riportato l’attenzione sulla condizione della detenzione al femminile- e un uomo, Andrea, a Rossano, in Calabria, del quale sappiamo solo che è la quarantasettesima vittima dall’inizio dell’anno (l’ultimo in ordine di tempo), e poco di più.

Riteniamo per questo urgente riprendere la proposta emersa nelle tre giornate seminariali che il CESPRete delle scuole ristrette ha svolto nell’ambito del Festival dei due Mondi di Spoleto dal 6 all’8 luglio scorsi “costituire Reti di scopo territoriali/interistituzionali per calibrare e strutturare l’offerta trattamentale, per entrare nel merito dell’attuazione delle Misure alternative alla detenzione, anche nella prospettiva di riduzione del rischio dei suicidi in carcere, per far uscire le progettualità dall’eterna rappresentazione di ‘buone prassi’ che non riescono, però, a fare sistema”.

   
Anna Grazia Stammati
(Presidente CESP)
Roma, 16 agosto 2023

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