I “rei folli” e i “folli rei”: quando due istituzioni totali si incontrano.

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Nelle Lezioni al Collège de France (novembre 1973/ febbraio 1974),  raccolte nel volume “Il potere psichiatrico”, Michel Foucault ritorna in maniera critica su tre nozioni già trattate nella “Storia della Follia nell’età classica”,  violenza, istituzione e famiglia. A proposito del manicomio, afferma che  l’importanza dell’istituzione è data, più che dalle regole “in maniera molto maggiore ,dalle disposizioni di potere, dalle correlazioni, dagli scambi, dai punti di appoggio, dalle differenze di potenziale che caratterizzano una forma di potere, e che credo siano appunto gli elementi costitutivi al contempo dell’individuo e della società”,  affermazione che si chiarisce partendo proprio dalla tragica vicenda dei “rei folli” e dei “folli rei” che, ad oggi, non è ancora conclusa.

Un po’ di storia. E’ nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia che, per la prima volta, nel 1886, si apre una sezione per i “rei folli”, ovvero per i detenuti che acquisiscono, in stato di detenzione, una patologia psichiatrica, distinguendoli dai “folli rei”, coloro che hanno commesso un reato, per “vizio di mente” e per questo non imputabili. Sarà il codice Rocco a stabilire, nel 1930, che entrambe le tipologie” vanno internate nei “manicomi criminali”, separati dai “manicomi comuni”, ma anche quando, con la Legge Basaglia, i manicomi verranno chiusi, tra questa legge, davvero rivoluzionaria, e l’abolizione  degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG, come nel frattempo erano stati rinominati “i manicomi criminali”), bisognerà aspettare 36 anni, dopo che, nel 2011, una Commissione Parlamentare fa luce sugli OPG, rendendosi conto delle terribili condizioni nelle quali erano tenuti uomini e donne, legati ai propri letti, in condizioni igieniche indescrivibili. Alla chiusura definitiva dei “manicomi criminali”, nel 2015, vengono aperte le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), strutture a carattere transitorio con un massimo di venti posti letto, che si occupano della “cura” del paziente e non della sua detenzione, costituendo una tappa di un più generale progetto terapeutico.

Ma i problemi continuano, e per due motivi: 1) le REMS non sopperiscono alle richieste degli istituti di pena, visto che in carcere il 9,2% dei detenuti soffre di patologie psichiatriche gravi e il 40,4% è sottoposto a terapia psichiatrica. Nella sua ultima Relazione annuale, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ci dice che sono 632 le persone ospitate nelle 31 REMS esistenti e 675 sono in lista di attesa, mentre, in contrasto con la norma, il 46,7% degli attuali ospiti di REMS sono in misura di sicurezza provvisoria, quando le REMS erano,invece, destinate a persone con condanne definitive; 2) tutto ciò riguarda i “folli rei”, coloro che commettono un reato in stato di dichiarata problematica psichiatrica, ma lascia scoperti i “rei folli”, ovvero, i detenuti che sviluppano in carcere un disagio mentale e che rimangono “ristretti” in sezioni apposite degli istituti penitenziari, con conseguente abbandono per carenza di personale. Dunque, nell’incontro tra due istituzioni totali, carcere e manicomio (la prima ancora in piena attività, la seconda scardinata nella sua architettura, ma intatta nell’esercizio dell'incontrastato potere psichiatrico), si disvela il funzionamento dell’istituzione-manicomio oltre la sua esistenza concreta, nella violenza che si accanisce sul “corpo del condannato” e lo assoggetta, giustificando i propri interventi al di là dell’istituzione che rappresenta (e che teoricamente non esiste più). Se oggi,  a 45 anni dalla “Legge Basaglia”, il problema dei “rei folli” non è ancora risolto e se la situazione del disagio psichiatrizzato nel mondo dei “liberi” risente di una involuzione verso la riapertura dei manicomi (in linea con l’inasprimento delle pene proprio di questo governo), c’è qualcosa che impedisce di intervenire in maniera appropriata. Di fronte ad una situazione di forte disagio psicologico, dentro e fuori dal carcere, viene confermato, infatti, che la soluzione è ancora quella di reprimere e rinchiudere, prima di conoscere e capire: se la maggioranza dei detenuti ha un disagio sociale, non c’è bisogno di ricorrere alla costrizione farmacologica, ma, semmai, si deve investire in interventi specifici, che gli permettano di frequentare centri esterni adatti ad un percorso di recupero (i dati ISTAT del luglio scorso ci dicono che nel 2022 quasi un ragazzo su due, tra i 18 e i 34 anni, ovvero 4 milioni e 870 mila persone, si trova in uno stato di difficoltà ed è stato lanciato un allarme sull’ aumento degli adolescenti con problematiche psichiatriche e sul numero dei minorenni ricoverati negli stessi reparti psichiatrici degli adulti).

E’ qui, allora, che l’affermazione di Foucault ritorna, avvertendoci che la strada dei cambiamenti deve andare oltre l’istituzione e comprendere il nesso tra "le disposizioni di potere, le reti, le correnti", gli elementi costitutivi dell’individuo e della società. Ovvero, penetrare in profondità, costruire consapevolezza (dei percorsi e dei processi), ritessere la trama di quelle relazioni sociali che hanno portato una popolazione intera a sostenere le ragioni profonde dei cambiamenti necessari, come è stato per quelle generazioni che, immerse nel flusso incessante di discussioni e seminari, incontri e scontri, assemblee e manifestazioni, le hanno fatte proprie e sostenute, determinando una vera e propria rivoluzione culturale. Alla quale è mancata, però, un’operazione di considerevole radicamento per imporre quei servizi sociali territoriali a sostegno dei fragili e delle famiglie: perché chi commette un reato, in situazione di disagio o meno, va sostenuto, per essere riconsegnato alla società e non costretto nella camicia di forza del “manicomio farmacologico”.

   

Anna Grazia Stammati (Presidente telefono Viola)

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